VISITA ALLA FABBRICA D'ARMI BERETTA DI GARDONE VALTROMPIA E AL VITTORIALE DI GARDONE RIVIERA
Parlare di armi di questi tempi può avere effetti indesiderati: una reazione allergica, uno spasmo acuto come quando si tocca un nervo scoperto. Eppure le armi, proprie o improprie, di varie fogge, natura fisica ed efficacia sono sempre esistite fin dai tempi di Caino che potrebbe aver usato un sasso, un bastone o le nude mani per togliere di mezzo il fratello Abele. E’ da considerare poi che se l’oggetto identificato dalla parola “arma” nel nostro immaginario, dettato dalla narrazione storica e dalla cronaca di attualità, viene automaticamente associato a parole come “nemico”, “guerra”, “uccidere”, “vittima” e così via, nella realtà (delle armi portatili ovviamente, non certo di cannoni, carri armati e bombe) può rappresentare anche uno strumento con ben altra funzione, ad esempio “difesa personale“, “ordine pubblico”, “caccia” (non me ne vogliano gli ambientalisti, ma la praticavano anche gli umani primitivi per proteggersi dal freddo con una pelliccia e per nutrirsi); o “sport”. E se allunghiamo lo sguardo dall’utilizzo delle armi, in particolare da fuoco, a ciò che lo precede potremmo aggiungere anche “storia”, “lavoro”, “tecnologia”.
E queste ultime parole chiave hanno solleticato l’interesse di 19 tra Maestri e Maestre del lavoro trentini e qualche accompagnatore che, grazie a suggerimenti, iniziativa e organizzazione del Console Sevignani e dei Mdl Andreaus, Refatti e Tamanini hanno potuto visitare il 20 marzo la Fabbrica d’Armi Pietro Beretta S.p.A. a Gardone Valtrompia (BS) e successivamente il Vittoriale d’Italia a Gardone Riviera sulla sponda bresciana del Lago di Garda.
Partiti in pullman alle 7 di una giornata che prometteva e ha mantenuto il bel tempo, alle 9,30 erano giunti sul posto, dove Pietro, un ex lavoratore della fabbrica per ben 44 anni, li ha accolti dimostrandosi poi una guida di notevole esperienza nell’illustrarne la storia oltre che le caratteristiche tecniche dei suoi prodotti e i particolari della lavorazione.
Il primo impatto è stato una grande villa in sasso a vista, in stile padronale di originale architettura immersa in un giardino di arbusti e siepi accuratamente scolpiti e con annessi fabbricati di ampie dependance: l’aveva fatta costruire negli anni ’20 del secolo scorso Piero Beretta artefice dello sviluppo e della modernizzazione della fabbrica ereditata dalle generazioni che l’avevano preceduto. La storia dei Beretta, infatti, era cominciata già nel 1526, come documentato da una ricevuta di 256 ducati rilasciata da Bartolomeo Beretta alla Repubblica Veneziana che pagava una fornitura di 185 canne da archibugio.
Il documento è esposto nel museo che si trova proprio all’interno della villa, un vero e proprio show room, come era nelle intenzioni dei suoi creatori, dell’armeria leggera da fuoco che attraversa secoli di storia: pistole, fucili, mitra. A prescindere da qualsiasi considerazione sul loro uso è impossibile non ammirare oltre alle varie caratteristiche tecniche, che Pietro illustra con dovizia di particolari sconosciuti ai più, la cura estetica con le quali erano curati i calci, decorati, intarsiati, in legno metallo e altri materiali di pregio.
Ma oltre ciò che la vista può apprezzare, e si tratta di centinaia di modelli esposti, c’è da immaginare una storia dietro tante armi, come il fucile del garibaldino dell’800, la pistola da duello tra nobili del ‘600 e quella d’ordinanza del poliziotto americano contemporaneo; oppure si può immaginare come una piccola pistola possa sonnecchiare vicino al rossetto nella borsetta di una donna o che ne possa fare uno sceicco di una pistola dorata oltre che esibirla per stupire i suoi ospiti, magari dopo averne regalata una tempestata di diamanti a qualche sua favorita. E mentre la fantasia vola la voce di Pietro declama le qualità di un otturatore o la differenza tra questo e quell’altro congegno e discetta di tipologie di ferro, acciaio e alluminio, di canne rigate e altre no, di velocità e distanza raggiunta dai proiettili, della precisione richiesta per le armi sportive, dei problemi affrontati e risolti man a mano che la tecnica progrediva nel tempo.
Terminata la visita al museo, percorrendo corridoi interni si raggiunge lo stabilimento sull’altra sponda del fiume Mella che percorre la Valtrompia: ma il corridoio non è un passaggio anonimo da cammino veloce, perché offre altro, inaspettato, da vedere: come tre automobili d’epoca e diverse motociclette MiVal (un richiamo alla memoria degli anni ’50) che Beretta realizzò assieme alla Benelli, industria protagonista del settore motoristico a due ruote. E poi, lungo le pareti del corridoio ecco un lungo promemoria di foto di campioni del tiro a segno di varie nazioni, una collezione di allori olimpici e mondiali che hanno testimoniato il valore dei fucili Beretta nello sport dando lustro a questa industria italiana.
Fine del corridoio ed ecco la fabbrica. Attraverso le vetrate si palesano le sale di assemblaggio dei vari componenti di ogni arma: apparentemente la disposizione logistica è abbastanza simile ad un open space di uffici, con tavoli e computer, nemmeno rumoroso.
Dura poco, perché subito dopo si entra nel reparto di produzione, e qui il rumore è sovrano: all’interno di grandi scatoloni di metallo azzurro, ben ordinati in lunghe sequenze, si fa chi sa che cosa, perché, anche leggendo i cartelli che indicano il tipo di lavorazione eseguita nei vari reparti, ci si capisce ben poco (per lo meno chi scrive) e la voce di Pietro è sovrastata dal rumore. Lungo un percorso obbligato (non oltrepassare le linee gialle!) si cammina tra i grandi macchinari fino a raggiungere un locale vetrato dentro il quale il braccio snodabile di un grande robot dimostra le sue capacità di manovra: uno scatto e prende due canne di fucile, le deposita sotto un congegno, dopo pochi secondi le riprende e le riposiziona sotto un’altra apparecchiatura e via così fino a quando le mette a riposo su un carrello. Un cartello ci avverte che lì si fa la levigatura ed è il massimo che si può sapere.
Fuori dal reparto produzione si passa, con visione a distanza, ai laboratori di ricerca, dove si prepara il futuro del settore armiero, e a quelli di controllo per la rispondenza ai requisiti di certificazione ISO.
A questo punto qualche informazione di corredo sull’azienda (fonte il sito web beretta.com): la fabbrica visitata ha prodotto nel 2022 un fatturato di oltre € 310 milioni e al 30 giugno dello stesso anno contava 826 dipendenti; fa parte del Gruppo Beretta, coordinato da una Holding, che vanta un fatturato di € 1,5 miliardi e conta oltre 6.000 dipendenti; è presente in tutto il mondo con una quindicina di marchi e prodotti quali, fucili, carabine e pistole, nonché accessori e abbigliamento connesso.
Dopo due ore , dunque, la visita è terminata. Per chi ha lavorato sempre su una scrivania l’unico motivo di corrispondenza con quanto visto è il computer, onnipresente su tavoli con operatore umano e su macchinari. Il resto è solo stupore, un po’ fanciullesco (il che è di giovamento soprattutto a chi pensa, solo per aver raggiunto una certa età, di sapere e capire tutto della vita).
E la sicurezza? visto che parliamo di un settore strategico, delicato e potenzialmente pericoloso. Tranquilli, ecco un breve riassunto: invio preliminare alla Società di copia delle carte d’identità dei visitatori; deposito della firma all’inizio della visita, un addetto alla sicurezza (armato) che segue il gruppo durante tutta la visita accertandosi che nessuno prenda strade diverse dal percorso previsto; divieto di scattare fotografie nell’attraversamento dei vari reparti della fabbrica (solo museo e corridoio); all’uscita, controllo tipo aeroporto con visore per tutta la ferramenta che ci si porta appresso in tasche e borsette, attraversamento di porta con il temibile bip bip se hai indosso anche solo la cintura con fibbia metallica ed infine ispezione corporea con metal detector. Poi, liberi tutti.
Liberi di andare a poca distanza: ristorante Cascina dei Gelsi, sala riservata, vino bianco e rosso, tris di antipasto, bis di primo, secondo, dessert quasi esagerato, caffè. Non un modo di dire, ma di mangiare sì: ottimo e abbondante, anche troppo.
Alle 14,30, puntuali sulla tabella di marcia, si parte alla volta del lago di Garda, salendo in quota con alcuni tornanti per la Valtrompia e deviando ad Est, tagliando la Val Sabbia per raggiungere Salò: qualche chilometro lungo il lago fino ad un altro Gardone, Riviera, dove ci aspettano le vestigia del Vate.
L’esperta di Gabriele D’Annunzio e guida per la visita al Vittoriale d’Italia è Daniela: in questo periodo non si potranno visitare le sale interne della struttura, ma le due ore a disposizione sono appena necessarie per tutto il resto, perché Gabriele certamente non si è risparmiato (indebitandosi non di poco) per trasformare una casa colonica in quello che è un complesso monumentale disposto su nove ettari di pendio montuoso degradante verso il lago.
Ci si incammina verso l’alto, seguendo Daniela, ascoltando la sua narrazione dalla quale traspare la voglia di coinvolgere i presenti nell’ammirazione per un uomo di indubbia qualità, per intelligenza, iniziativa, determinazione, un uomo eclettico, scrittore esteta della parola e intellettuale, soldato, comandante e politico fuori degli schemi, coraggioso e incontrollabile, esagerato e sempre oltre i limiti, ma generoso, con una manifesta consapevolezza narcisistica del suo essere alla quale contribuiva l’adorazione che sapeva suscitare nella gente. Il Vittoriale è un tributo ed una celebrazione che D’Annunzio dedica agli eroi e ai caduti della prima guerra mondiale, ma che implicitamente egli dedica a sé stesso affinché a futura memoria in quel complesso, la cui edificazione comincia nel 1921 protraendosi per lunghi anni, si possa riconoscere la sua vita e la sua anima.
Passando sotto archi, attraversando piazzette, ammirando le auto del poeta (due Alfa Romeo e una sontuosa Isotta Fraschini), salendo per sentieri e scale, tra rampe di verde selvaggio attraversato da un rivolo d’acqua ed il piantumato di giardini, tra edifici di varia fattura e destinazione (c’è un anfiteatro all’aperto ed un auditorium sotto una cupola), sfiorando opere monumentali di valore simbolico più che di pregio artistico e cimeli d’armi della prima guerra mondiale, come il famoso MAS 96 (motoscafo armato silurante) della beffa di Buccari, finalmente si arriva al Mausoleo in cima con i sarcofagi di D’Annunzio, dei suoi eroi-compagni d’avventura militare e dell’architetto Gian Carlo Maroni progettista del Vittoriale. Dal Mausoleo lo sguardo corre in basso per osservare la metà con la prua della nave Puglia incastonata su uno sperone del terreno e poi si ridiscende: ancora edifici tra i quali la Prioria, con le stanze in cui D’Annunzio abitava e riceveva i suoi ospiti e le sue numerose amanti, i ricoveri dei suoi amati cani e ancora giardini, il tutto sempre costellato di statue e riferimenti vari a personaggi illustri, miti, simboli.
Per finire, la mostra degli effetti personali di D’Annunzio: abiti, scarpe e stivali, cappelli, camice e cravatte, penne e fogli di quotidiana scrittura (come gli ordini di menu del pranzo): tutto raffinato, esclusivo come doveva sentirsi nel suo intimo e voleva appresentarsi in pubblico una persona che si identificava perfettamente con il personaggio. E tutto quello che s’è potuto vedere al Vittoriale ne è una fedele testimonianza
Una curiosità merita di essere evidenziata: forse non ci si aspettava nessun collegamento logico tra una fabbrica d’armi e un complesso monumentale come il Vittoriale, se non quello geografico del percorso, incidentalmente della denominazione dei luoghi; magari, riflettendoci, sull’uso bellico delle armi e su un monumento dedicato ad eroi e caduti in guerra. Invece va detto che il collegamento più stretto ed evidente è un motto d’annunziano e un logo grafico: il logo della Beretta di tre frecce che attraversano tre cerchi è esattamente quello creato da Guido Marussig per Gabriele D’Annunzio a rappresentare il “dare in brocca” caro al poeta-soldato ed equivalente a “colpire il bersaglio” (lo si trova al Vittoriale così come alla Beretta). Ne eravamo consapevoli prima delle visite ai due siti?
Ore 18. Si ritorna al pullman per un viaggio che dura fino alle 19,40, il tempo utile per riposare le gambe dopo le camminate nei due Gardone e rivivere con la mente quello che s’è visto, ascoltato e capito in una giornata che aggiunge qualcosa di nuovo e di diverso al tran tran delle solite giornate.
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